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Accadde oggi – 31 gennaio 1944: ad Auschwitz muore Arpad Weisz

Ebreo ungherese vincitore di 3 scudetti in Italia con Inter e Bologna

di Roberto Vena – Il 31 gennaio 1944 il tecnico ebreo ungherese Arpad Weisz, vincitore di tre scudetti in Italia con Inter e Bologna, muore ad Auschwitz vittima della Shoah.

Un innovatore che ha illuminato di luce nuova il calcio italiano, inghiottito poi nel pieno della sua carriera dalle tenebre generate dal sonno tossico della ragione e dall’eclissi totale del sentimento di umanità. Di Arpad Weisz, campione da giocatore e fuoriclasse da allenatore, si commemora oggi l’80^ anniversario della morte avvenuta nel campo di sterminio nazista di Auschwitz dove il tecnico gentiluomo, tanto vincente quanto garbato e modesto di carattere, venne deportato nel 1943 per morire tra gli stenti proprio il 31 gennaio 1944.
A precederlo, il 7 ottobre 1942, i suoi familiari: l’affascinante moglie Ilona “Elena” Rechnitzer, anche lei ebrea ungherese, e i figli Roberto e Clara,12 e 10 anni. Loro passati nelle camere a gas subito dopo il loro arrivo nel campo di sterminio, lui inizialmente dirottato in un campo di lavoro polacco in Alta Slesia dopo la cattura in Olanda, a Dordrecht, ultima fermata del suo glorioso itinerario sportivo.

Nella freschezza della sera – scrive Matteo Marani – a Bologna già “scorre qualcosa di pungente e di sinistro, qualcosa non colto finora. E’ un gelo che arriva da lontano. Non è l’estate che si annuncia, è piuttosto un nuovo inverno dopo l’inverno che pareva già alle spalle”.

Le leggi razziali impongono agli ebrei stranieri di lasciare l’Italia. Weisz guida il Bologna per l’ultima volta il 23 ottobre 1938, contro l’Ambrosiana-Inter. I rossoblù sono primi in classifica, ma la imminente tragedia gli impedirà di vincere il suo terzo scudetto sotto i portici. Sarà il suo sostituto, l’austriaco Felsner, a potersene fregiare. Il 10 gennaio 1939 con moglie e figli lascia Bologna, diretto a Parigi.
Il 16 febbraio raggiunge l’Olanda per guidare il Dordrecht, raggiungendo la gloria anche nell’isola urbana bagnata dal Reno, dalla Schelda e dalla Mosa, conquistando la salvezza e due quinti posti nella massima serie.
Ma l’Olanda è già sotto il tallone nazista. L’applicazione nei Paesi Bassi delle leggi di Norimberga impediranno a Weisz di lavorare, ai suoi figli di andare a scuola e obbligheranno tutti a girare con la stella di Davide cucita sui vestiti. Il 2 agosto 1942 la Gestapo arresta l’intera famiglia. Il primo girone dell’Inferno sarà il campo di raccolta di Westerbork.
Il 2 ottobre 1942 ammassati in un vagone piombato vengono trasferiti in Polonia: destinazione Auschwitz. Il resto è già tristemente noto: il 31 gennaio 1944 la morte avvicina il fischietto alla bocca e, come scrive Matteo Marani, “emette il triplice fischio finale”.

Gli esordi

Arpad Weisz nasce a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896. Gioca a calcio ed entra a 15 anni nel Törekves, squadra di Budapest, con cui esordisce due anni dopo in prima squadra. Quando scoppia la Prima guerra mondiale – come ricorda Carlo Felice Chiesa in un suo intervento sul sito Storia e memoria di Bologna – “parte volontario nell’esercito austro-ungarico, viene catturato dai soldati italiani il 28 novembre 1915 nel corso della 4a battaglia dell’Isonzo sul Monte Mrzli, a nord di Tolmino, e viene internato a Trapani”.
Al termine del conflitto torna al suo Törekves per poi cominciare nel 1923 la sua stagione al Maccabi Brno, squadra cecoslovacca di campioni globetrotters di origine ebraica che gira l’Europa tra tornei ed esibizioni, quando il calcio della Mitteleuropa detta legge. Viene convocato nella nazionale magiara, con sei presenze, tra cui un’amichevole con l’Italia, finita 0-0. Nel frattempo, l’Inter lo arruola: gioca in nerazzurro dieci partite del campionato 1925/26, ma un infortunio al ginocchio ne limita pesantemente il rendimento, tanto da costringerlo al ritiro alla fine di quel torneo. L’Inter, intuendone le qualità tecniche, lo ingaggia però come allenatore. Conquista il quinto posto nel 1926-27 e l’anno dopo lancia il giovanissimo Giuseppe Meazza, scoperto in realtà da un altro grande del calcio italiano, Fulvio “Fuffo” Bernardini, detto il Professore perché sarà uno dei pochissimi calciatori dell’epoca laureati in Italia.

Il lancio di Meazza

Bernardini si fermava spesso a guardare gli allenamenti delle giovanili e rimase impressionato dal giovane Meazza di cui suggerì a Weisz una celere aggregazione in prima squadra. E il tecnico magiaro non esitò ad accogliere il consiglio del suo giocatore dopo aver visto all’opera Bepin Meazza. Quell’anno però l’Inter non andò oltre il 7° posto e Weisz fece le valigie per tornare in Ungheria ad allenare lo Szombathely, città che oltre alle glorie sportive gli fece dono dell’incontro con Ilona Rechnitzer, la donna che le cronache di allora descrivono bellissima e che diventò sua moglie.
Con lo Szombathely salpa per una lunga tournée in Sudamerica, Cuba e New York. Nel 1929 l’Inter lo richiama a Milano e in quel campionato, il primo a girone unico della storia calcistica tricolore, Weisz (il cui cognome il regime trasforma nell’italianizzato Veisz, mentre sua moglie Ilona diventa Elena) compie il primo dei suoi capolavori, vincendo lo scudetto in una squadra in cui oltre al fenomeno Meazza giocavano Allemandi (con Meazza nell’Italia mondiale del 1934), Serantoni (mondiale nel 1938) e Gipo Viani. Weisz ha 34 anni ed è il più giovane allenatore straniero ad aver vinto lo scudetto in Italia.

Il suo contributo tattico

A giugno di quell’anno, il 1930, il tecnico pubblica con Aldo Molinari “Il giuoco del calcio”, un manuale che si rivela di straordinaria modernità. Raccoglie le novità tecniche e tattiche studiate ed elaborate da Weisz nelle sue esperienze in Europa e Sudamerica e poi sperimentate dall’allenatore, il primo a partecipare in maglietta e pantaloncini agli allenamenti della squadra.
Nell’introduzione della nuova edizione del manuale, ripubblicata a gennaio del 2018 in memoria di Weisz, Carlo Felice Chiesa scrive: “Gli autori spiegano con puntigliosa dovizia di dettagli, attitudini, atteggiamenti e movimenti del calciatore nei vari ruoli, dal portiere all’ala sinistra, suggerendo comportamenti in allenamento e in campo nelle varie fasi di gioco, parlano non solo ai contemporanei, ma anche ai protagonisti della nostra epoca: tecnici, addestratori e ogni genere di praticanti del gioco più bello del mondo”.
Anni dopo Matteo Marani nella sua intensa e commovente biografia “Dallo scudetto ad Auschwitz – Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo” ne consolida la reputazione e l’istinto visionario scrivendo che il tecnico “ha dominato con la forza delle idee, introducendo novità decisive nel calcio italiano da ogni punto di vista. Preparazione, professionalità, rigore scientifico, ritagliandosi un posto di prestigio nella nascente storia del pallone”.

L’eroe di Bari

Concluso temporaneamente il ciclo vincente all’Inter, Weisz si mette in gioco scendendo al Sud per allenare il Bari, che navigava derelitto nel fondo classifica nel campionato 1931/32.
Riesce a portare i galletti allo spareggio-salvezza contro il Brescia e lo vince. Al ritorno in Puglia Weisz viene accolto da centinaia di tifosi e portato in trionfo lungo la città, lui così schivo da trovarsi quasi a disagio in tanta manifestazione di giubilo popolare.
Prende di nuovo la strada del Nord per riapprodare a Milano. Due campionati, due secondi posti, l’ultimo dei quali deludenti per il crollo nel girone di ritorno dopo un’andata in testa della classifica. Nel mezzo anche la finale di Coppa Europa persa di misura.
Prima dei fasti bolognesi fa tappa a Novara accettando di scendere in serie B, ma nel gennaio del 1935 il presidente Renato Dall’Ara lo vuole al Bologna. E sotto le Due Torri saranno nuovi trionfi.

Gli scudetti rossoblù

In Emilia conquista lo scudetto nel 1936 interrompendo l’egemonia del quinquennio juventino. Impiega 14 giocatori, record mai eguagliato. E’ anche il primo tecnico a vincere il campionato con due squadre diverse e in città differenti.
Nella stagione successiva guida ancora il Bologna al titolo con il suo calcio “asciutto e funzionale”, come lo descrive Marani, e il 6 giugno 1937 a Parigi è l’apoteosi quando porta il Bologna in cima al mondo vincendo il Torneo dell’Expo in finale sul Chelsea. Nel 1937-38 arriva quinto con i rossoblù. Nel torneo successivo riparte alla caccia dello scudetto, ma il funesto finale di partita si avvicina. Il Re Vittorio Emanuele III firma le leggi razziali volute da Mussolini per l’ennesimo atto di compiacenza e sottomissione al Fuhrer. Arpad Weisz, l’uomo di calcio elegante e di lettura importanti, fiuta i miasmi che intossicano l’aria per l’imprevisto emergere del razzismo di regime.

Il ricordo di Bologna

Come tradizione, a ricordare Arpad Weisz è stata la sua Bologna.
Come tradizione negli ultimi anni, il 27 di gennaio il sindaco felsineo Matteo Lepore e Daniele De Paz in rappresentanza della comunità ebraica bolognese hanno posato una corona di fiori sotto la lapide dedicata al tecnico magiaro e collocata sulla Torre di Maratona dello stadio Dall’Ara. Un gesto che onora Weisz e tutti i milioni di morti della Shoah per non dimenticare la storia e le conseguenze della più atroce campagna lanciata contro il genere umano dal nazismo, cui si unì per codarda sudditanza e pari crudeltà l’Italia fascista.

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