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Accadde oggi: 30 ottobre 1977, la tragica morte di Renato Curi

L'annuncio di Ciotti al termine di Tutto il calcio minuto per minuto

di Roberto Vena – E’ la storia di una speranza spezzata che ha rubato a Renato Curi, giovane centrocampista marchigiano del Perugia di Ilario Castagner, il sogno di trasformarsi da giocatore dai tanti talenti in campione del calcio italiano.

30 ottobre 1977. E’ il quinto minuto di gioco del secondo tempo di Perugia-Juventus, quinta giornata del campionato di serie A 1977-78. Partita di cartello: il Perugia dei miracoli guidato da Ilario Castagner è in testa alla classifica insieme alla Juve e al Milan. La partita è bloccata sullo zero a zero, all’impeto olandese del Perugia si contrappone l’impenetrabile difensivismo di Giovanni Trapattoni, figlioccio prodigo di Nereo Rocco, che del “primo non prenderle” ha fatto un ineguagliabile marchio di fabbrica. Sul campo ridotto a una risaia per la forte pioggia i giocatori perugini giocano una rimessa laterale, la palla va verso il centrocampo, un giocatore umbro tenta il controllo ma non raggiunge il pallone, cade a terra, meglio: si accascia. Il pallone viaggia verso l’area perugina ma gli sguardi di tutti allo stadio si distraggono dall’azione e si concentrano su quel ragazzo disteso nel cerchio di centrocampo. Nel pantano c’è lui, Renato Curi, 24 anni compiuti da un mese. Proprio gli juventini Renato Curi lo conoscono bene: due anni prima all’ultima giornata aveva siglato il gol della vittoria dei Grifoni sui bianconeri, timbrando così il passaporto per lo scudetto del Torino, il settimo, il primo dopo Superga.

Curi non si rialza, non muove un muscolo. Furino, poi anche Benetti, Scirea e Bettega, lì vicino, si accorgono che sta accadendo qualcosa di molto grave, richiamano l’arbitro che fa entrare la barella. Compagni e avversari accorrono attorno al giovane calciatore perugino, che rientra negli spogliatoi in condizioni allarmanti, il suo cuore si è arrestato. A Piano di Massiano la partita va avanti tra calciatori disorientati e pubblico raggelato. Finisce senza appello, invece, la partita con la vita e con il calcio di Renato “cuore matto” Curi. Beffardamente all’unisono con il triplice fischio dell’arbitro Menegali, che manda tutti a casa sullo 0-0, i medici dell’ospedale di Perugia alzano le mani impietriti e impotenti: non c’è più nulla da fare, il cuore di Renato Curi si è spento per sempre senza aver mai ritrovato il battito. Nulla hanno potuto dapprima i tentativi di rianimarlo compiuti dai sanitari del Perugia negli spogliatoi, con iniezioni, massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca. Nulla poi riusciranno a fare i medici del Policlinico perugino che se lo vedono arrivare praticamente già cadavere e per 40 minuti le provano tutte sperando nel miracolo. Che non arriva.

L’Italia calcistica, e non, saprà della morte iniqua di Renato Curi dalla voce mai così cupa di Sandro Ciotti, che chiede la linea a Enrico Ameri al termine di Tutto il calcio minuto per minuto per annunciare la dolorosa notizia.

Renato Curi sapeva di aver qualche problema cardiaco, ci scherzava su coi compagni di squadra, diceva che con il passar del tempo si sarebbe stabilizzato. Per spiegare il pulsare  sgangherato del suo muscolo diceva di avere il “cuore matto” come il campione del ciclismo Franco Bitossi. Venne anche fermato e sottoposto a controlli più approfonditi al cuore ma dopo poco tornò regolarmente in campo. La sua morte scatenò mille polemiche: i medici del Perugia e della Federazione furono accusati di non averlo fermato in tempo, ma in molti pensarono che mai e poi mai Renato Curi, pur consapevole del suo difetto cardiaco, avrebbe accettato di appendere gli scarpini. L’autopsia dimostrò che Curi soffriva di una “malattia cronica del cuore capace di dare morte improvvisa”. Il responsabile sanitario del Perugia, Mario Tomassini, e quello della Federcalcio, Fino Fini, furono processati e condannati in secondo grado a un anno di reclusione con i benefici di legge. Renato Curi lasciò la moglie Clelia e la figlia Sabina di 3 anni, Renato e Clelia non sapevano ancora di aspettare un secondo figlio, che nacque 8 mesi dopo e fu chiamato Renato junior.

La corsa di Renato Curi verso un posto importante nella storia del calcio italiano si interruppe così.

Renato era nato a Montefiore dell’Aso, in provincia di Ascoli Piceno, il 20 settembre 1953. Dopo pochi anni il padre venne trasferito per lavoro a Pescara e lui comincia a tirar calci nella Marconi, squadra giovanile del capoluogo adriatico, mettendosi in mostra giovanissimo come centrocampista di buona visione di gioco e gran dinamismo. Viene pescato dal Giulianova che lo acquista e lo fa esordire diciassettenne in serie D al termine del campionato 1970-71. I giallorossi giuliesi vincono il campionato e Renato disputa due campionati di serie C ancora a Giulianova, poi passa di categoria, in B col Como. Tra i lariani attira l’attenzione di Ilario Castagner, allenatore veneto in rampa di lancio, invaghito del calcio totale dell’Ajax di Rinus Michels e Johann Crujff che aveva sovvertito l’idea stessa di football fino ad allora in voga.

Castagner lo fa acquistare dal Perugia per il campionato 1974-75 che si rivelò una marcia trionfale, conclusa con la prima storica promozione del Perugia in serie A. E’ la squadra di Nappi, Frosio, Picella, Scarpa, Sollier, Vannini e di bomber Pellizzaro. Renato Curi diventa subito un pilastro del centrocampo biancorosso, integrandosi alla perfezione, lui brevilineo tutta elettricità e visione geometrica, con Franco Vannini, il Condor, alto 1,90, trequartista, rifinitore e all’occorrenza incursore che si presentava minaccioso sottorete per chiudere l’azione con le sue incornate imparabili. Renato Curi finisce il torneo con 23 presenze e 4 gol. Al debutto in serie A il Perugia si presenta con un nuovo gioiello, Walter Alfredo Novellino, detto Monzon per la somiglianza spiccata col pugile argentino Carlos Monzon, peso medio dal pugno dinamitardo che demolì Nino Benvenuti decretandone la fine di carriera. Novellino, infanzia a San Paolo del Brasile, mezzapunta e all’occorrenza centravanti tattico, si aggiunse all’ossatura del Perugia di Castagner, portando classe e fantasia in una squadra imperniata ancora sui pilastri di centrocampo Curi e Vannini, irrobustiti dal mestiere e dalla garra di Aldo Agroppi, della personalità di Frosio in difesa e dai grintosi Scarpa e Sollier in avanti. In quel campionato il Perugia chiude all’ottavo posto, Renato Curi mette a referto 25 presenze e 3 gol, con la rete pesantissima segnata all’ultima giornata a Dino Zoff, che decide incontro e campionato a favore dei granata di Gigi Radice del “poeta” Claudio Sala e dei gemelli del gol Pulici e Graziani.

Nel campionato successivo i Grifoni salgono ancora e si issano al sesto posto. La crescita tecnica, tattica e agonistica di Renato Curi è costante. mette insieme 28 presenze ma nessun gol. Ormai sembra avviato a mutare la livrea, smettendo quella dell’ottimo giocatore per indossare quella dell’aspirante campione. Il torneo 1977-78 lo vede confermatissimo al centro del progetto del Perugia di Castagner, sempre più consapevole delle proprie qualità e prospettive.

Spiegava così il suo podismo instancabile: “Non so dire come mai corro tanto. Ho pol­moni come gli altri, una certa vo­cazione per la corsa, da ragazzo ero buon mezzofondista, 800, 1500, 3000 metri. E poi ho un cuore matto, capriccioso. Dice­vano che ero malato, pensate un po’. Dal Giulianova al Como eb­bi un intoppo. E mi mandarono al Centro Tecnico di Coverciano perché il cuore aveva battiti irregolari. Però è un cuore di atleta, si assesta appena compio degli sforzi. Quando corro, quando mi affatico, i battiti diventano per­fetti”.

Perfetti fino a quel piovoso e funesto pomeriggio del 30 ottobre 1977 sul verde di Pian di Massiano, che tre settimane dopo la tragedia venne ribattezzato “Renato Curi”. In omaggio alla sua figura e memoria la squadra del Marconi di Pescara, dove mosse i primi passi, cambio nome in Renato Curi, continuando a forgiare grandi calciatori, primi tra tutti i pescaresi campioni del Mondo Fabio Grosso e Massimo Oddo.

L’affettuoso epitaffio dello sfortunato calciatore lo ha tracciato suo figlio Renato junior, che non ha mai conosciuto il padre: “La cosa più bella che mi hanno raccontato di papà è il modo con cui affrontava la vita. Sempre disponibile e gioioso con tutti. È stata la gente a mantenere sempre vivo il ricordo di mio padre”.

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