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Ricordi di calcio: Massimino e il suo Catania

Silio Rossi racconta aneddoti, incontri e storie di calcio vissute

di Silio Rossi – Sulle sue battute, sui suoi strafalcioni, su quell’italiano deturpato, sono state scritte pagine e pagine. Sicuramente molte di più di quante ne possano vantare i carabinieri, con le loro barzellette. La Gialappa’s e altre trasmissioni televisive e radiofoniche ne avevano fatto un beniamino, un ospite fisso e non hanno mancato di regalarci le sue chicche.

Tutto questo, però, ancora oggi, racconta di un Angelo Massimino nella maniera più credibile, cioè che era un puro, un naif, un genuino che se ne fregava delle critiche a quel lessico storpiato: l’importante era che si lasciasse in pace il suo Catania, a cui aveva dedicato una vita e che lui avrebbe voluto mantenere nel grande giro.

Dire Catania era come dire Massimino. E viceversa. Un binomio inscindibile che il “cavaliere” ha sempre cercato di tenere vivo, perché don Angelo sembrava fatto apposta per occuparsi di pallone. Ne capiva parecchio, anche se quei modi bruschi, quelle difficoltà a presentarsi con un linguaggio sciolto facessero credere il contrario. E non gli rendevano giustizia.

Come tutti i meridionali, nati alla fine degli anni Venti, una volta diventato adulto capì che la cosa migliore sarebbe stato espatriare, salire nella nave e andare a cercare fortuna nelle Americhe. Così anche lui partì, ma giurò a se stesso che, se avesse rimediato un po’ di soldi, sarebbe tornato per sistemare la famiglia e per comprarsi il Catania.

Aveva scelto l’Argentina e le case da costruire. Sapeva fare il muratore, non era un principiante e con orgoglio si presentò al primo capomastro. Ebbe successo, era preparato e ben scafato. Tanto da inserirsi in fretta nel mondo dell’edilizia, una volta tornato a Catania, con una valigia zeppa di pesos. Insomma non fu costretto a interrompere il discorso con la calce e il cemento, anzi incrementò le sue conoscenze sulla materia con un altro ruolo: finalmente padrone. E a Catania poteva dare lavoro a chi non ne aveva, per iniziare in città un discorso di urbanizzazione che lo sfascio e il passaggio della guerra, rendevano maledettamente necessario.

Per lavoro a Catania sono stato diverse volte, soprattutto quando la Lazio entrava e risaliva dalla B alla A. Mi capitava, quindi, di incrociare il presidente ed era uno spasso ascoltarlo. Se lo capivi ti accorgevi che di calcio “ne sapeva”, anche se a volte dava delle spiegazioni che avevano bisogno della traduzione. “E’ vero – raccontava – ho l’ossessione per il calcio. Là in America del Sud ho fatto un po’ di soldi. Ho faticato come un somaro, ma già ragazzo ho capito che non ti regala niente nessuno e che se vuoi costruirti una vita dignitosa. Devi sudare tutto il giorno e non devi sperare che gli altri ti aiutino. E’ vero il calcio è sempre stata la mia passione. Ho provato a giocarlo, non mi è riuscito bene. Meglio allora guardarlo da addetto ai lavori. E poi avevo fatto una promessa alla mia città: quando torno in Italia entrerò nella società del Catania calcio“.

Grazie a lui il Cibali, il vecchio stadio, oggi ha il nome del suo presidente: “Angelo Massimino”. E’ là che la squadra del Catania ha resistito più volte nella massima serie, disputando incontri storici, contro avversari temibilissimi. Anche perché con i tifosi che ti alitano dietro al collo, era difficile per tutti uscire indenni dal quel campo. Quel “Clamoroso al Cibali“, il giorno che persino la grande Inter finì col lasciarci le penne, non fu altro che un grido di battaglia, una sorta di avvertimento per spiegare che, con quella formazione, non si poteva scherzare.

Su chi abbia interrotto il collega della radio, per dare il risultato di Catania, c’è ancora una grande confusione. Per tanto tempo la Rai ha fatto delle ricerche, anche perché Sandro Ciotti, indicato da molti come il possibile indiziato, si è sempre rifiutato di assumere la paternità di quell’urlo. Era il 1961 e oltre all’alone di mistero di quel giorno di Catania-Inter resta il fascino e l’emozione di quando i risultati delle partite di calcio si sentivano alla radio.

Del Massimino, buon trattenitore, restano le sue battute, i suoi personali modi di dire, una sorta di lotta con la lingua italiana. Un giorno tentò di scoprire le carte, anche per tenere tranquilla la tifoseria sulle operazioni di mercato del Catania: “Sto andando in Paese che non vi dico a comprare due campioni brasiliani“.

Spesso il presidente non usciva da questo cliché. A proposito di frasi a effetto, nessuno si meravigliava se in conferenza stampa, a inizio di ogni stagione, diceva: “Quest’anno i tifosi ci seguiranno dappertutto e con tutti i mezzi a disposizione, con i pullman, con i treni, e con i voli charleston“.

Una volta don Angelo raccontò di una trasferta al Nord: “La settimana scorsa abbiamo andati a giocare a Modena“. “Presidente, siamo andati”, gli fece notare qualcuno. E lui tranquillo, candido candido: “Perché hai venuto pure tu“?

Gli resta appiccicata addosso addosso la frase che è passata alla storia, quando fu costretto a chiarire che per stare nel calcio, bisogna avere molto denaro: “In questo mondo – commentò – c’è chi può e chi non può. Io può“.

Per il Catania ha lasciato la vita in un incidente stradale. Era il 1996, viaggiando sull’autostrada e venendo da Palermo, dopo aver espletato delle pratiche per la squadra, insieme con il genero. La vettura è impazzita, ha sbandato, si è rigirata su stessa un paio di volte, Massimino è stato sbalzato fuori dall’auto. E’ morto sul colpo. Non aveva neppure settant’anni.

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