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L’editoriale di V. Cerracchio: “Le verità di Sarri”

Sarri IN o Sarri OUT? L'opinione di Vincenzo Cerracchio.

(Vincenzo Cerracchio)

di Vincenzo Cerracchio – Mi terrei stretto Sarri. Lo dico da laziale. Non da giornalista che crede, anzi si illude, quasi sempre a torto, di capirne di più. Lo dico senza averlo conosciuto, senza avergli mai parlato. Ché mi stava pure parecchio antipatico per gli eccessi verbali di quando perde la brocca. Lo dico non perché altri, praticamente tutti, lo definiscano maestro di calcio.

Per me il calcio non è una scienza esatta, i primi maestri li trovi a spiegare ai pulcini che non si è tutti Maradona, e poi a motivare i dopolavoristi della terza categoria che si allenano al gelo del nostro dopocena. Poi sali la scala, studi a Coverciano, ti affanni, non dormi, lavori sodo sul campo – lo fanno tutti, non è che Pippo Inzaghi, ultimo in classifica, stia lì a fregarsene! – ma ci sarà sempre un Marusic che ha testa e piedi in qualche vuoto spazio siderale o un Lazzari dall’ennesimo, fragile labiale idiota. E allora ti accorgi di non aver insegnato niente di determinante: maestro per dire.

Lo dico a dispetto del suo integralismo tattico. Che rispetto, come rispetto le idee di tutti. Figuriamoci se si parla di moduli, quando conta il fuoco dentro. Il “sarrismo”, francamente, è una presa per i fondelli mediatica. Lo dico a dispetto delle sue scelte ostinate. Che difendo per lui: perché solo un allenatore può avvertire in settimana cosa ha davvero per le mani e nessuno schiera la squadra a perdere. Magari solo per uno screzio o una ripicca.

Lo dico allora perché Sarri ha il coraggio, a volte la giusta sfrontatezza, della verità. Che parli del terreno di gioco o di un Var sghembo, dei troppi gol sbagliati da altri, oppure dei propri abbagli e delle sopravvalutazioni.
Perché non strizza l’occhio ma guarda negli occhi. Gli ultras e i tiepidi, i tastieristi anonimi e gli autoproclamati opinionisti, gli influencer e i follower, i pro e i contro a prescindere.
Perché i laziali si dividono da sempre in tifosi e innamorati. Un tempo – purtroppo devo dirlo: “ai miei tempi” – i secondi prevalevano sui primi. Da quando nel ’27, nella città che era nostra, di sei squadre ne fecero per decreto e propaganda una sola, con conseguente e congrua eredità di supporter.
E una volta diventati minoranza, per quel decreto e per quella propaganda, bisogna arrangiarsi con l’amore calcistico che è un misto di orgoglio e dignità.

Ecco, gli innamorati veri lo sanno bene quando la Lazio ha fortuna e quando la perseguitano, quando i giocatori vanno e quando scalano le marce, quando gli acquisti sono sbagliati e quando le scommesse sono vinte. Non hanno paura di dirlo. Non ci cascano alla storiella dei “difensori della fede”: che i panni sporchi si lavino solo in famiglia, che chi critica sia un anti-laziale, un gufo portajella.
Ho vissuto da ragazzo le contestazioni al primo Maestrelli, i mugugni sul fisico di Chinaglia, i dubbi sulla classe di D’Amico. Nel 2000 Negro e Favalli passarono per brocchi, Boksic per indolente, Mancini per supponente, Nesta e Nedved infine per traditori.
Figuriamoci se oggi possiamo farci delle remore. Se non possiamo dire che ci manca Milinkovic e che il contratto gli andava rinnovato anni prima, che è arrivata gente inadatta al gioco di Sarri, che ci volevano altri esterni di difesa. E’ il tono con cui lo dici che fa la differenza, con fermezza e senza urlare, come fai con un figlio affinché prenda coscienza e limiti gli errori.

Sarri ha detto quello che sappiamo. Ed è stato interpretato come un attacco ai critici, agli insoddisfatti, laddove era invece una precisa redistribuzione di responsabilità societarie e un richiamo ai pretenziosi che non si accorgono (ciechi o finti che siano) che, come sempre, sopra la Lazio ci sono sei-sette “rose” più attrezzate. Se sei fortunato, ogni tanto la Dea si sbenda, ma mica sempre, anzi molto di rado. Del resto Lotito ha altri sogni e i suoi sogni privati prevalgono da sempre su quelli pubblici del popolino. Senatori si diventa: a tirarla, la sua giacchetta, si è solo stropicciata un po’ di più.

Credo che Sarri abbia capito che i vecchi laziali pretendono principalmente di non essere presi in giro. Non invidiano i sold out e i Mourinho altrui. Cercano solo la sfrontatezza sportiva nello sguardo di chi li rappresenta.
Ed è questa la sintonia che sente, che lo ha avvicinato, affascinato, convinto, legato a questi colori, a questa unicità di sentimento. Personalmente ne ricordo pochi “conquistati” (inguaribilmente ammalati, avrebbe detto Giorgio) come lui, tra gli allenatori venuti da fuori, non nati laziali come Lovati, o Carosi, o Morrone: Maestrelli ovviamente, Fascetti sicuramente, Delio Rossi più recentemente. Tutti abbastanza ricchi di esperienza da capire il fascino di certi valori sportivi, le dinamiche complesse di una Storia unica.
I giovani allenatori, anche quelli più bravi, sono passati senza lasciare questo segno. E così anche molti vincenti. Hanno tifato per se stessi ma non si sono fatti conquistare.
Per questo mi terrei stretto Sarri, perché ha fatto presto a sentire la Lazio come uno di noi…

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