di Silio Rossi – Nel 1949 avevo sette anni. Tifavo Torino, come tutti i ragazzi che allora iniziavano ad appassionarsi al calcio. Magari non ricordavo le tabelline, le poesie, però la formazione granata era una delle poche cose che mi “restava” nella memoria e che, come i grani di una corona del rosario, uno alla volta, mi veniva facile scorrere e ricordare: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. A cui, per civetteria era necessario aggiungere i nomi degli altri, le riserve, che a stento, nelle cinque stagioni dei trionfi, riuscivano a trovare un posto nel magico e collaudato team di Erbstein.
Ero del Torino, come dicevamo a Serrone, il mio paese. E quella sera di maggio piansi in maniera accorata e sincera perché a quei “ragazzi” mi ero affezionato. Tornavo da Piglio, un piccolo borgo della Ciociaria, con mio padre. A piedi percorrevo la strada che dal paese dei nonni ci avrebbe portati alla stazione del “Trenino delle Vicinali”, per prendere la coincidenza per Serrone. Da una casa, proprio di fronte alla chiesetta della Madonna delle Rose, una radio, con il volume alto, stava trasmettendo la “diretta” da Torino con la quale, purtroppo, i cronisti annunciavano, e ne raccontavano i particolari, la tragedia di Superga.
Chiedemmo di entrare per ascoltare meglio e ci mettemmo poco a capire che la storia di una delle formazioni più forti mai avute nel nostro calcio, aveva chiuso il suo meraviglioso viaggio sportivo dentro quell’aereo, sul Colle di Superga. Una tragedia immane che colpiva umanamente le famiglie degli sfortunati protagonisti, ma anche il grande mondo del calcio che, proprio questi ragazzi erano riusciti ad animare con le loro vittorie. E che toglieva realtà e punti di riferimento a chi, come noi poco più che adolescenti, grazie alla radio, a qualche ritaglio di giornale, o all’album delle figurine, iniziava ad amare il pallone e i suoi interpreti.
Al grande dolore della società granata si strinse tutto il mondo e non soltanto quello del calcio. La gravità della perdita di tanti calciatori e del seguito, parlo dei dirigenti, ma anche di tre giornalisti: Renato Casalbore, Luigi Cavallero e Renato Tosatti, papà di Giorgio, che lo avrebbe onorato con un impegno straordinario dopo esserne diventato erede anche nella professione.
Seicentomila persone (duecentomila in più di quanti ne poteva “sopportare” il tragitto) il giorno del funerale, in fila lungo le strade e nelle piazze per l’ultimo saluto. Tutti i club del calcio nazionale erano rappresentati dai loro dirigenti. Anche la Lazio e la Roma, la Juve, quel giorno, erano presenti con i loro gagliardetti, listati a lutto, e con una delegazione di dirigenti, per il saluto agli sfortunati campioni. Un serpentone lunghissimo e composto, lungo le vie del Centro di Torino, mentre “passavano” le bare. Seicentomila in pianto dirotto per i ragazzi di Ferruccio Novo, il presidente granata che, pezzo dopo pezzo, consegnandola a Ernest Erbstein, era riuscito a dar vita ad una squadra che vinceva ovunque, che forniva dieci uomini su undici alla Nazionale e che, purtroppo, quel giorno trasferiva i suoi protagonisti dal campo alla leggenda.
Recuperata da mio padre, tra le cose più care, conservo una copia di un settimanale di allora. Considero il titolo della prima pagina la frase più vera e più struggente che per quegli eroi sia stata mai scritta: “Non credevamo di amarli così tanto”.
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