di Silio Rossi – Ragionando di calcio, come spesso gli capitava, posso azzardare che Carlo Mazzone abbia scelto il via di un altro campionato, per “togliere er disturbo”. Ragionava e si divertiva, sorridendo al momento sul quale, visto il suo recente stato di salute, un po’ tutti siamo stati costretti rivolgere il pensiero.
Gli sono stato amico e ho continuato a pensarlo in quella casa di Ascoli “vittima” di una doppia sofferenza: quel malessere che ne aveva fiaccato la forza di combattente e la malinconia per aver dovuto lasciare un’attività, seguita con certosina attenzione. Una professione gestita, onorata da comportamenti cristallini e onesti, predicati come primo comandamento ai tanti ragazzi che ha aiutato a crescere in quel mondo, fatto di pazzie e di compromessi.
Basterebbe questo per aggiungere che Mazzone lascia un grande vuoto, un’eredità che il tempo non ha annacquato e che, anzi, ci permette di salutarlo come giustamente merita.
Da allenatore Carletto ha vissuto come un globetrotter. Avanti e indietro tra il Sud e il Nord dell’Italia dove le sue panchine sono state spesso scomode. Ha assaporato più spesso il calcio “dei poveri“, gestendo squadre che le esigenze delle società imponevano, perché gli esigui patrimoni dei presidenti con cui si confrontava annullavano i suoi sacrosanti desideri.
Bravo, preparato, tignoso, capace e desideroso di aggiornarsi a nuovi sistemi, tanto da dare alla sua squadra un gioco d’avanguardia. Lo sottolineò tanti anni fa Fulvio Bernardini “il dottore”, che di calcio ne sapeva davvero, a Coverciano durante una riunione dei tecnici della massima serie: “Se volete vedere un bel gioco – disse Bernardini – dovete andare a vedere come allena Mazzone“.
Carlo ha lavorato anche con campioni di prim’ordine. Ha avuto Francescoli, Zola, Matteoli e Oliveira al Cagliari; Giannini, Aldair, Balbo, Fonseca e Totti alla Roma; Baggio, Pirlo, Guardiola al Brescia; Signori al Bologna e un giovane Antognoni nella Fiorentina. Gente di primo livello che spesso portava Mazzone a “sognare” qualcosa di diverso e di migliorare il risultato finale, ma che non gli “impediva” di lavorare sodo perché anche i meno dotati, impegnandosi al massimo, contribuissero “pe’ fa’ er risultato“.
Tra le altre Mazzone ha allenato anche la Roma. Tre stagioni con alterne soddisfazioni, ma con il cuore finalmente sereno per aver “conquistato” la possibilità di sedersi, finalmente, sulla panchina della SUA squadra, quella che tra l’altro lo aveva lanciato come calciatore.
Forte di tante esperienze fatte altrove, nella Capitale Carlo cercò il più possibile di isolarsi. Via dai pettegolezzi e dal giornalismo linguacciuto e da tifosi “opprimenti”. Una sola volta a settimana si concedeva un giro “fori porta“, quando c’era da spiare in televisione, qualche giocatore straniero nelle partite di Coppa europea. Così con Leonardo Menichini, Massimo Neri, Ernesto Alicicco e qualche cronista affidabile, se ne andava a Nemi, ai Castelli Romani, dove fissava il suo quartier generale dall’amico e ristoratore Renzo.
Lo faceva per autodifesa, per restare il più a lungo se stesso. Ma anche per raccontarci che anche il “suo calcio” quello bistrattato e mai sufficientemente apprezzato, valeva quanto le immagini televisive che gli altri proponevano.
L’onestà professionale dava di Mazzone una vera e propria immagine di uomo d’altri tempi. Si vantava di non essersi mai venduto, o peggio di aver acconsentito l’accomodamento del risultato di una partita. E quando capiva che c’erano rischi ai suoi giocatori le cantava a voce alta.
Alla vigilia di quel Perugia-Juventus Carletto aveva capito che poteva succedere quello che lui odiava: giocare a perdere. Nella riunione del pre-partita convocò la squadra e alla sua maniera volle mettere le cose in chiaro. Importante quello che disse ai giocatori. “Ragazzi, se parla troppo de ‘sta partita con la Juve. In città se parla de “biscotto”. Io nun ve dico gnente. Voglio che giocate come sempre e che nun ve fate pijà da cattivi pensieri. Ricordatevi che vi guarderanno da tutto il mondo, perché c’è ‘no scudetto de mezzo. E poi ve voglio dì un’ultima cosa: Mazzone non s’è mai venduto ‘na partita“.
Sappiamo come è andata a finire.
Carlo, riposa in pace. Grazie per averci accompagnato nel lungo, ma con te sempre gratificante, lavoro. Grazie di aver ribadito al mondo del calcio che “se po’ magnà pane e pezzetti”, come dicevi, anche restando onesti.
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