di Stefano Greco – Cei, Zanetti, Vitali; Carosi, Pagni, Dotti; Mari, Bartù, D’Amato. Governato, Ciccolo. Allenatore: Umberto Mannocci.
È questa la formazione della Lazio che immortalata nelle foto con cui ho deciso di aprire questo articolo, la squadra che il 10 ottobre del 1965 vince il derby in casa della Roma grazie ad un gol segnato vero la fine del primo tempo da Vito D’Amato. In tribuna, sugli spalti dell’Olimpico, vicino al commissario straordinario Gian Chiarion Casoni c’è un costruttore, oppure come venivano chiamati allora a Roma un “palazzinaro”, che è diventato da qualche anno dirigente e azionista della Lazio.
Il suo nome è Umberto Lenzini e il suo destino è quello di cambiare la storia della Lazio, di diventare il presidente del primo scudetto biancoceleste e di una squadra che era già leggenda quando giocava: per le vittorie che otteneva, per il germe della follia che albergava in quel gruppo e perché alla guida di quei giocatori c’era Tommaso Maestrelli, l’Allenatore con la “A” rigorosamente maiuscola più amato nella storia della Lazio. Umberto Lenzini è diventato presidente della Lazio il 18 novembre del 1965, ed è stato il mio primo presidente da tifoso biancoceleste, visto che la scintilla che ha fatto nascere questo mio amore viscerale per la Lazio è datata 12 febbraio del 1967, in una domenica invernale di sole che solo Roma può regalare.
Chi è nato nella seconda metà degli anni settanta o dopo, di Lenzini sa poco o nulla. Per chi come me è nato all’inizio degli anni sessanta o prima ancora, Umberto Lenzini è stato la personificazione di quel papà buono e sempre sorridente di una volta. Ho scelto questa foto di Umberto Lenzini per l’articolo di oggi perché è un poster di un calcio d’altri tempi. Quello degli stadi sempre e comunque pieni, quello dei presidenti che per far sognare i tifosi investivano anima, cuore e patrimoni personali nel calcio senza poter contare sui soldi delle tv. E per questo quei presidenti erano legati da un cordone ombelicale alla gente.
Quello di Lenzini era il calcio dei capi tifosi che prima delle partite facevano il giro di campo con presidenti che erano amati e odiati a seconda dei risultati, come succede dalla notte dei tempi nel calcio e nello sport. Ma quei presidenti non potevano tradire la gente e non potevano trattare chi tifava Lazio come uno straccio inutile, perché senza i soldi dei tifosi e senza gli incassi al botteghino non potevano andare avanti.
Per questo, a distanza di 36 anni dalla sua scomparsa, Umberto Lenzini è ancora ricordato non tanto e non solo per esser stato il presidente del primo scudetto, ma per quei suoi giri di campo prima delle partite, per quei bagni di folla impossibili anche solo da immaginare nel calcio di oggi! Il suo sorriso da “papà buono”, i suoi pronostici, le sue epiche partite a carte con Tommaso Maestrelli in ritiro, il suo rapporto di amore e odio con il figlio putativo Giorgio Chinaglia, i suoi giri di campo propiziatori prima di una grande partita quasi avvolto da migliaia di bandiere biancocelesti e le sue frasi leggendarie profezie durante le interviste.
Tutto questo è stato Umberto Lenzini, l’uomo che portando per la prima volta la Lazio alla conquista dello scudetto si è guadagnato, di diritto, un posto in prima fila nella storia ultracentenaria di questa società. Figlio di due italiani emigrati dalle montagne dell’Abetone a quelle americane di Colorado Springs in cerca di fortuna all’inizio del secolo scorso, Umberto Lenzini è nato il 20 luglio del 1912 a Walsenburg, negli Stati Uniti. Nel 1927 la sua famiglia è tornata a Roma è Umberto Lenzini ha completato gli studi di ragioneria presso l’istituto Duca degli Abruzzi, nei pressi di piazza Indipendenza, a due passi dall’attuale sede de “Il Corriere dello Sport”.
Ragazzo dal fisico atletico, Umberto Lenzini ha giocato a calcio ma ha ottenuto nell’atletica leggera i suoi risultati migliori, arrivando a correre i 100 metri in poco più di 11 secondi. Tempo straordinario per l’epoca. I genitori, con i soldi ricavati dalla vendita del grande emporio che hanno messo su a Walsenburg, nel 1927 acquistano gli enormi appezzamenti di terreno che sorgono alle spalle di piazzale degli Eroi, sotto il monte Aurelio e a Valle dell’Inferno, all’epoca aperta campagna e sede solo di alcune vecchie fornaci. La costruzione di un’arteria importante come via Baldo degli Ubaldi e la successiva urbanizzazione della zona, trasformano i Lenzini in una famiglia di costruttori, con una scalata economica da “miracolo italiano” degli anni Sessanta.
Il 29 ottobre del 1964, il “sor Umberto” entra nel consiglio della Lazio, presieduto all’epoca da Miceli. Lenzini diventa vice-presidente e dopo la reggenza da parte del generale Vaccaro affianca insieme ad Andrea Ercoli il giovanissimo Commissario Straordinario Gian Chiarion Casoni e il 18 novembre del 1965 assume la carica di presidente della Lazio. Arrivato alla guida della società in un momento di gravissima crisi economica, figlia degli sperperi del passato, Lenzini chiede ai tifosi biancocelesti “pazienza e buon senso”. Il suo arrivo, segna una svolta nella storia del club, che si trasforma in società per azioni. Lui, il “sor Umberto”, ne sottoscrive per 5 milioni di lire.
Inizia così l’avventura di uno degli ultimi presidenti romantici del calcio italiano, l’ultimo nella storia di una Lazio che, con l’avvento di Calleri prima e Cragnotti poi si trasformerà in una vera e propria industria, aprendo addirittura la strada alla quotazione in Borsa della società. All’apparenza burbero, in realtà Umberto Lenzini è una sorta di “papà buono” che ha quasi la necessità di sentirsi circondato dai figli, da tanti consiglieri e da una moltitudine di amici. Un comportamento che lo fa paragonare dai giornalisti dell’epoca al “papà Goriot” descritto da Balzac.
Nonostante il clima familiare, l’inizio dell’avventura lenziniana non è dei più facili: nel 1967 la Lazio retrocede in serie B, risale in A dopo due anni e precipita nuovamente all’Inferno dopo altre due stagioni. Un sali e scendi che porta i tifosi a contestarlo, ma che in realtà è fondamentale per la costruzione delle fondamenta della squadra delle meraviglie. Tra alti e bassi, Lenzini ringiovanisce la rosa, effettuando un epocale cambio generazionale. È lui che firma l’assegno per l’acquisto di Wilson e Chinaglia dall’Internapoli. È lui che nel 1971 decide di chiamare in società Antonio Sbardella per mettere l’esperienza dell’ex arbitro al servizio della Lazio e del neo allenatore Tommaso Maestrelli. Nasce un rapporto a tre all’apparenza molto promettente che diventa ben presto però un rapporto a due, perché dopo l’ennesima litigata tra “papà Goriot” e il suo dirigente, Sbardella decide di lasciare la società dopo la cessione di Massa all’Inter.
Le partite a scopa con Maestrelli, con il perdente di turno costretto a firmare la banconota da girare all’avversario come ammissione della sconfitta, diventano leggendarie. Un’umiliazione che va ben oltre il valore della banconota persa. Se con Sbardella il rapporto è fin dall’inizio tormentato, quello con Chinaglia è da subito caratterizzato da alti e bassi. Giorgione chiede di essere ceduto dopo la retrocessione in B nel 1971 e il conseguente licenziamento di Juan Carlos Lorenzo, ma Lenzini si oppone. In seguito, con il valore di Chinaglia che cresce in modo esponenziale in rapporto ai gol segnati e alla convocazione in Nazionale, Lenzini inizia ad accarezzare l’idea di monetizzare l’investimento fatto anni prima, ma viene stoppato dall’intero ambiente. Il “giù le mani da Chinaglia”, diventa il vero grido di battaglia dei tifosi e dei giornalisti di fede biancoceleste. E Lenzini arriva a rifiutare un’offerta di 500 milioni di lire per il cartellino del suo centravanti.
Per far capire di cosa stiamo parlando, basta pensare che in quell’epoca in cui le società vivevano solo di incassi al botteghino, il suo record la Lazio lo stabilì il 17 febbraio del 1974 grazie ai 76.564 (58.429 paganti, 18.135 abbonati) di Lazio-Juventus che portarono nelle casse biancocelesti 286.758.000 lire. Più dei 261.898.900 di lire incassati il 12 maggio del 1974, il giorno di Lazio-Foggia, quando sugli spalti c’erano 78.809 spettatori (60.494 paganti e 18.315), a tutt’oggi record assoluto di presenze allo Stadio Olimpico per una partita giocata dalla Lazio o dalla Roma.
Ma torniamo a quell’estate del 1971. Nonostante la grande tentazione, Lenzini resiste e “Long John” resta alla Lazio. Ed è lui, insieme a Maestrelli, il grande protagonista della conquista del primo scudetto biancoceleste della storia. Lenzini, con quei memorabili giri di campo tra cori e bandiere al vento, vive il suo momento di trionfo e lo scudetto vinto lo convince della bontà della sua gestione-familiare della Lazio. Ma è un modo di fare calcio non al passo con i tempi e con i cambiamenti in atto che, ben presto, porta nuovamente la Lazio dal Paradiso al Purgatorio. E poi all’Inferno.
Dopo l’acquisto di giocatori sconosciuti diventati campioni affermati come Chinaglia, Wilson, Martini, Pulici e Re Cecconi, Umberto Lenzini si convince di avere il tocco magico e di essere un grande esperto di calcio. Per sostituire Chinaglia, volato negli Stati Uniti, acquista Ferrari che si rivela un bluff. L’anno successivo, mentre il Vicenza preleva dal Como Paolo Rossi, il “sor Umberto” compra l’altro Rossi del Como e intervistato dalla RAI gonfia il petto e dice con aria di sfida. “Ho acquistato io il vero Rossi, non Paolo, Renzo….”. L’anno successivo, Paolo Rossi vince la classifica dei cannonieri in serie B e poi la stagione successiva quella di Serie A, diventando uno dei punti fermi della Nazionale di Bearzot. Il Rossi comprato da Lenzini, invece, si rivela poco più di una meteora passata quasi senza lasciar traccia nella storia della Lazio.
Finita l’epoca d’oro figlia del boom immobiliare, Lenzini fatica a restare al passo con i tempi dal punto di vista economico e con l’addio alla panchina e poi la morte di Tommaso Maestrelli, perde anche il controllo della squadra. Questo vuoto di potere consente a personaggi loschi di trovare terreno fertile all’interno di una Lazio che, quasi senza accorgersene, si ritrova coinvolta nello scandalo-scommesse che sconvolge il calcio italiano. Con la retrocessione a tavolino dell’estate del 1980, i mugugni dei tifosi si trasformano in una ferocissima contestazione e il “sor Umberto” è costretto a passare la mano al fratello Aldo. “Mi dimetto da presidente, ma con il cuore non mi dimetterò mai dalla Lazio”, dice quasi con le lacrime agli occhi il “Sor Umberto” annunciando le sue dimissioni. L’era-Lenzini si chiude definitivamente l’anno successivo, quando Aldo lascia la società nelle mani di Gian Chiarion Casoni.
Umberto Lenzini cade immediatamente nell’anonimato, i tifosi che lo hanno applaudito durante quei festosi giri di campo negli anni d’oro lo additano addirittura come il maggiore responsabile del tracollo della Lazio. Perché Roma è così: umorale, volubile, una città che in un amen ti mette sul trono e con la stessa rapidità ti getta nella polvere. E così, una volta uscito dal palcoscenico il “Sor Umberto” si accomoda dietro le quinte, ma continua a seguire la Lazio in silenzio, per non disturbare.
Umberto Lenzini muore il 22 febbraio del 1987, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari. Due giorni dopo, però, al funerale celebrato nella Basilica di San Lorenzo partecipano migliaia di tifosi della Lazio. Non c’è la folla oceanica che ha fatto da cornice dieci anni prima all’ultimo saluto dato a Tommaso Maestrelli e a Luciano Re Cecconi, ma questo non toglie nulla a Umberto Lenzini e al ruolo fondamentale che ha recitato questo uomo d’altri tempi nella storia della Lazio. Anzi.
Perché Lenzini come presidente è riuscito dove qualcuno non arriverà mai e dove hanno fallito in tanti prima di lui: da Ballerini a Zenobi, da Gualdi a Siliato, presidenti che hanno investito anche capitali enormi per portare la Lazio alla conquista dello scudetto. Lui c’è riuscito, ed è stato il primo: e per questo, è entrato di diritto nella storia della Lazio e finalmente il 22 febbraio del 2023 Roma gli ha dedicato un luogo a suo nome per omaggiarlo per quello che ha fatto per la Lazio e per questa città.
Umberto Lenzini, il terzo presidente più longevo nella storia della Lazio che ha iniziato la sua era alla guida di questa società giovedì 18 novembre del 1965.
(articolo concesso dall’autore – da Millenovecento – sslaziofans.it)
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