di Silio Rossi – Ci manca da venti anni. Una vita, ancor più rimpianta e ricordata perché le parabole, le metafore, quel “parlar chiaro” di Gianni Agnelli erano autentici “avvisi ai naviganti” a chi allora ci governava, all’economia mondiale, che sembrava filare tra alti e bassi, al calcio, infine, “fenomeno” che l’Avvocato aveva “abbracciato” da bambino e con la Juventus aveva contribuito a portare a grandi livelli.
L’ho incrociato varie volte, quasi sempre dentro uno stadio, correndogli appresso per evitare che la sua auto zigzagasse tra i tifosi, prima che potessimo ascoltarlo. In tre o quattro occasioni, quasi sempre con la complicità del calcio, l’ho ascoltato. E ragionava su tutto. Per ogni problema sembrava avere la sua soluzione e la dava non senza aggiungere avvertimenti sani e particolari.
La prima volta, a metà degli anni Sessanta, l’ho incontrato a Castel Lombardo, piccolo borgo a pochi chilometri da Torrimpietra, dove mia madre e mio padre erano titolari di un ufficio postale a disposizione degli abitanti dell’Ente Maremma, un’istituzione che aveva portato ad una trentina di chilometri da Roma tantissimi settentrionali, scesi per lavorare nei campi, nelle vaccherie, nei frutteti.
A Castel Lombardo viveva Maria Sole, coniugata Campello, la sorella di Gianni Agnelli, nella cui grande tenuta, in cui soprattutto si gestiva la crescita di cavalli destinati ai concorsi ippici, si lavorava per renderli “purosangue” da cedere a quanti, dell’ambiente gentilizio, ne avesse bisogno.
Il caso volle che un cavallo delle Regina Elisabetta d’Inghilterra si infortunasse in allenamento. Così la Contessa di Campello fece chiedere, dal suo maggiordomo, a mio padre la possibilità di mandare un “dispaccio” urgente a Londra per raccontare l’evento e per comunicare che nessuno era in grado, o meglio se la sentiva, di intervenire. Mio padre fu coinvolto per inviare quanto richiesto. Era tarda sera e bisognava essere solleciti. E il giorno dopo l’autista di casa Campello era a Fiumicino a ricevere il veterinario di corte e due stallieri di Buckingahm Palace.
Per la cortesia avuta, Maria Sole la “mia sorella minore”, così Agnelli parlava di lei, invitò uno della nostra famiglia alla “cacciarella”, una “kermesse” a cui assistevano nobili e alti ufficiali. amici dei padroni di casa chiamati a rincorrere le lepri, i fagiani di cui Castel Lombardo era abbondantemente fornito. E andai io. Ovviamente non sparavo. Mi piaceva, però, l’idea di assistere ad un evento che regalava grosse emozioni, ma soprattutto mi piaceva l’occasione di avvicinare gente così prestigiosa, con una cultura decisamente superiore. Lo capii quando tra gli invitati trovai Gianni Agnelli. Mentre gli ospiti puntavano i fucili contro i fagiani, l’Avvocato spaziava, grazie alla sua infinita conoscenza di uomini e cose, da un argomento all’altro: dalla politica estera, tra cui, più volte, aveva infilato i suoi incontri particolari con Kruscev, Kennedy e Kissinger, dalla situazione italiana per la quale, in verità, verso chi la stava rappresentando allora, non aveva grandissima stima, al rapporto tra i banchieri internazionali, che frequentemente visitava a New York o Londra, o riceveva a Torino per una “verifica” della situazione economica. E non soltanto di quella italiana.
Ma si parlava anche di calcio. Del suo ingresso da ragazzo nella Juventus: “E’ stato mio padre _ rivelò _ ad introdurmi. Mi portò al campo dove c’era il provino di Hirzer, un ungherese velocissimo che avevamo acquistato. Non ho più smesso di interessarmi. E quando non c’era la televisione e i giornali pubblicavano pochi resoconti, già da piccolo stavo al fianco di quei calciatori: “Combi, Rosetta, Monti. La storia della Juventus”.
Ho avuto il piacere di riascoltarlo sul calcio in un altro paio di occasioni. Nel 1990, con l’Italia del pallone in grande agitazione, speranzosa che i ragazzi di Vicini potessero vincere quel mondiale.
Agnelli si presentò a Marino. Voleva incontrare “per una decina di minuti” gli inviati dei giornali, seduti sulla tribunetta di quello stadio. La “breve chiacchierata”, come l’aveva definita Antonello Valentini, capo dell’ufficio stampa della Federcalcio, che lo aveva accompagnato, durò due ore. Ogni concetto “era da titolo”, ogni considerazione, garbata e pertinente, un invito agli azzurri al massimo impegno. E noi attaccati alla rete di recinzione del campo a godere di questo “momento” straordinario. Le sue erano autentiche “parole di veritas”. Quello che diceva Gianni Agnelli “era cassazione”, come avrebbe scritto qualche anno dopo in “Così parlò’ Bellavista”, Luciano De Crescenzo.
L’ultima volta l’ho trovato a Parigi nel mondiale del 1998, presso “Casa Italia”, nell’Espace Pierre Cardin. Si parlò solo di calcio, di momenti vissuti insieme con alcuni suoi giocatori, a cui è stato particolarmente affezionato. Platini, prelevato con un aereo privato per battere sul tempo l’Inter che tergiversava, Tacconi che per giustificare qualche sua “papera” rivoleva Zoff come preparatore: “Sapesse quando manca a noi Zoff _ gli disse Agnelli _ ma da portiere”. E proprio a Parigi aprì “una finestra” su Marcello Lippi. tecnico della Juventus che aveva vinto tanto in bianconero, ma che dava segnali di stanchezza e che non nascondeva di voler cambiare squadra. In effetti nel 1999, Marcello firmò per l’Inter.
Su Lippi l’Avvocato” tirò fuori uno dei suoi messaggi straordinari: “Di Lippi non posso che dire bene, Ha lavorato secondo la nostra filosofia e ha raggiunto risultati ragguardevoli. Potrei aggiungere che è il più bel prodotto di Viareggio. Se non ci fosse Stefania Sandrelli”.
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